CASA DOLCE CASA (O NO?) – vieni al mio Sociodramma?

IO SONO LA MIA CASA | MITOS ONLINE IL 2 APRILE

Tra nomadismo e stanzialità, procediamo?

Sul sito di EMPATHEATRE _ LA COMPAGNIA DEI SALVASTORIE leggiamo:

In una situazione dove siamo costretti a prendere le distanze, interrompere le nostre attività o proporle in formula virtuale, ci chiediamo in che modo si possa rimanere connessi, sperimentando nuove forme per stare insieme attraverso le pratiche teatrali.

Empatheatre e CO.H, insieme alla rete di compagnie e professionisti del Teatro Sociale che si sono incontrati a Lucca presso il 

Festival Mitos –  Meeting Internazionale di Teatro Sociale

decidono di proporre un web-festival con un programma di attività volte al benessere, alla resilienza, alla creazione di comunità e al confronto artistico.

Artisti, esperti del Teatro Sociale e del benessere vi guideranno da gennaio ad aprile in attività da fare e da vedere della durata di circa due ore. 

Gli eventi si rivolgono ad adulti e bambini e hanno il costo di un’offerta consapevole di 10 euro, un modo per sostenere tutti i professionisti che in questo periodo non hanno possibilità di esibirsi oppure di svolgere la propria attività in presenza.

Costi agevolati o biglietto gratuito per sostenere chi in difficoltà.

Il festival si sostiene grazie ai docenti che hanno aderito all’iniziativa.

Io porterò il TAROTDRAMMA nella forma di giochi immaginali ed elementi di Sociodramma in un incontro che si terrà il 2 aprile dopo cena. Dalle 21 alle 23,30 esploriamo tutte le sfumature dell’abitare dentro e fuori di noi.

Per iscrizioni: https://www.fuoriedentrolemura.it/mitos-online-elenco/

L’OTTANTESIMO DELLA MADRE – il filo matrilineare

Mia madre da ragazza in Grecia negli anni ’60…
e, molti anni dopo, io nel saliscendi, gli angoli del Tempo…
… per ritrovarla nel sorriso di mio figlio…

Da bambina non volevo somigliare a lei, non per quei tratti del carattere che mi erano nemici. Da adolescente, poi, l’apoteosi del distacco – unita nella rabbia in sotto-testo. Le mie corna caprine contro le acque del mare di lei non trovavano altro che inutili diatribe ben lontane dal senso arché delle cose e di certo avulse dal significato profondo della condivisione.

Da bambina la trovavo incomprensibile: ne bramavo la vicinanza indossando la mia maschera sprezzante. Piuttosto che scegliere lei, le preferivo un’attrice del cinema oppure aderivo medusea alla genitrice di un amore fidanzato. La desideravo alta, formosa, bionda, bruna, più allegra, meno dura e testarda, più accogliente e piena di miele. Perfetta madre su misura per la mia indolenza. 

Grazie alle battaglie ho danzato i miei passi fuori dalla soglia, ho abbandonato la mia città e sono andata via dalla casa uovo. Non mi sono accorta del filo matrilineare fino a quando, dietro all’angolo del Tempo, non ho scorto in mio figlio lo stesso sorriso di lei in un pomeriggio degli anni ’60 a Milano. Le labbra carnose di un bimbo riportano luce all’intreccio e mi accorgo che sono contenta di aver conservato la trama. 

Buon compleanno a te, mamma.

“Ottant’anni non sono pochi” dici  – ma, ribatto, nemmeno abbastanza.

IO E IL DISEGNO – racconto in breve

Collage poetico | Valeria Bianchi Mian

Quando Suor Maria Nives se ne andò, lasciandoci in balia del dubbio, non piansi. Sarà andata via perché lo desiderava lei stessa oppure la grande congrega delle sorelle ‘serve di Maria’ l’aveva richiamata all’appello, riportandola a Roma, città dalla quale, se ben ricordo, era partita? Forse Milano era troppo fredda per lei, a dispetto di quel nome da Biancaneve. Mille domande affollavano la mia testolina ma di lacrime nemmeno l’idea.

In compenso, quando Suor Maria Nives se ne andò, io non disegnai più. Mi rifiutai di dar voce e tratto, volto e presenza alla mia mano sinistra. Mancina, figlia di un padre mancino ‘corretto’, costretto a scrivere con la destra perché il mancinismo era considerato un dono del diavolo, ero dotata della stessa creatività spontanea che caratterizzava il mio genitore. Suor Nives l’aveva capito, aveva colto il mio daimon, apprezzando ogni scarabocchio prodotto dalla sua allieva prediletta. Mi portava a spasso lungo i corridoi mostrandomi affreschi e icone sacre. Illustrava alle altre maestre i miei prodotti come se fossero dipinti degni di attenzione e lode. Mi decantava.

Quando se ne andò, io non ne fui informata e non ne seppi nulla fino al mio rientro sui banchi di scuola. Trovai un’altra maestra, decisamente indifferente all’arte. Mi eclissai. Mi addormentai. Ero stata abbandonata: mi sentii delusa, ferita, arrabbiata. Se in prima elementare ero fiorita, arrivando ad apprezzare lo studio e l’impegno, in seconda divenni intellettualmente amorfa, spenta, svogliata.

Moltissimi anni dopo, in un pomeriggio di primavera andai a visitare l’istituto scolastico della mia infanzia e rividi Suor Maria Nives. Ero in procinto di laurearmi in Psicologia all’Università di Torino e tornavo raramente a Milano ma, quando mi veniva l’ispirazione, mi recavo sui luoghi del ‘delitto’, punti chiave e snodi della mia infanzia. Quel giorno mi sentivo particolarmente ispirata: senza alcun avvertimento citofonai e mi fu aperto. Le aule, il giardino, l’area giochi: tutto era rimasto come allora. Una suora allegra e giovanile correva dietro a un gruppo di bambini. Quando si voltò la riconobbi subito. Non perse tempo. Nives, perché sorridendo mi venne incontro e dopo pochi istanti comprese. Si rammentava tutto ma proprio tutto. Era felice di vedermi e con mio disappunto (temporaneo) completamente priva di sensi di colpa. Perché avrebbe dovuto sentirsi in difetto? Le sorelle, spose di Cristo, non godevano di legami terreni. Andavano e venivano come il vento, come Mary Poppins, come le nuvole e il sole, come la pioggia. Chiacchierammo a lungo, ricordando gli anni Settanta. Da quel giorno, non mi feci più alcun problema nei confronti dell’arte: se non erano gli altri a portare il peso degli eventi, perché avrei dovuto accollarmelo io?

Mi fidanzai con alcuni creativi, tra i quali un architetto colombiano particolarmente dotato nel disegno, che fece il tifo per la mia liberazione espressiva. Mi supportò e coinvolse nell’attività di sketch, tanto da farmi dimenticare gli ostacoli. Il tempo a mia disposizione e una certa tendenza alla svalutazione di questo lato della mia personalità continuarono a dimostrarsi nemici o, per lo meno, fastidi, ma posso affermare oggi con una certa convinzione che non intendo lasciare da parte la Valeria illustratrice.

Dopo aver vivacizzato tre dei miei libri – “Favolesvelte”, “Una casa tutta per lei” e “Vit(amor)te” – con figure in bianco e nero e a colori; dopo aver prodotto un piccolo mazzo di arcani maggiori; dopo aver intarsiato una bella antologia per la quale non ho svolto altra attività che quella di illustratrice, che piaccia o no agli altri mi dichiaro tracciatrice seriale.

Amen.

Valeria BM

TUTTA COLPA DI FATO – storiaccia

Favolesvelte

12511920_10153476887839773_2063331454_n * Fato e Mea *

Sono davvero molto felice di essere tornata a scrivere qui, e di potervi regalare (di poterci regalare) sempre nuove Favolesvelte!

In questi giorni sto pensando al procedimento alchemico come metafora della scrittura. Ogni nuova storia, ogni progetto che nasce è un incontro creativo tra istanze opposte. Così come avviene nel laboratorio dell’alchimista, tutto ciò che si genera nella nostra mente occorre, ovvero avviene per mezzo di un avvicinamento di differenze. Può essere guerra o amore, battaglia o bandiera bianca, ma l’importante è saper dosare le distanze, un po’ come cerco (sperando di esserci riuscita) di dire in questo articolo sulla rivista Niedern Gasse: IL SIGNOR VENERE (Monsieur Vénus) – sulla scrittura, sul mercurio, sul volatile e sul fisso – http://www.niederngasse.it/rubrica/99

Ed ecco, mettendo insieme due elementi opposti, quali ad esempio Fato e Colpa mi nasce una storiella, anzi una storiaccia che parla di…

C’era una volta un…

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BUON NATALE DA FAVOLESVELTE!

Nani di Natale! Riproponiamo una delle filastrocche più amate dai lettori del libro e dai seguaci di questo blog!

NANI IN FUGA

Una favola di
Valeria Bianchi Mian

Era una notte tempestosa e scura

quella in cui quattro di sette piccoletti

organizzarono nonostante la paura

la grande fuga dal luogo in cui, protetti

con altri tre a Biancaneve stavan stretti.

Con la sua fissa del principe ideale

ma offrendo baci e giurando che li amava

quella smorfiosa faceva molto male

al cuor dei nani coi quali coabitava

accanto al melo nel giardin di zia Gustava.

Era una notte di fulmini e saette

quando gli eroi salutarono gli amici

– più timorosi, questi tre, tra i sette –

per correre via liberi e felici

finendo in pasto a quarantaquattro mici.

E per i tre che son rimasti ancora là

la scelta adesso è: schiavitù o libertà?

*** *** ***

Valeria Bianchi Mian

MIO, IL GATTO – favola vera di Ezio Crivellin

Ezio Crivellin abita ad Adelfia, in provincia di Bari, e da tempo scrive versi che pubblica principalmente online. A Mio, il gatto nero, Ezio ha dedicato la Pagina Facebook dove raccoglie la maggior parte delle sue poesie.

Se Ezio scrive per diletto e per necessità, per ispirazione e per cura dell’anima, il gatto Mio è invece nume tutelare che posa lo sguardo su ogni cosa: uomini, mondi, iperuranio.

I due si sono incontrati in un camposanto quando Ezio lavorava come custode in quel luogo non così triste come si potrebbe pensare di primo acchito: tra le lapidi e le fotografie c’erano storie e fantasie che si sono evidentemente materializzate in un paio di magici occhi e in un sorriso sotto i baffi.

 

Favolesvelte oggi ospita Mio ed Ezio.

 

Mio, il gatto del camposanto

di Ezio Crivellin

 

È sempre di fretta il Signor Tempo,

ed io con lui attraverso i giorni, rallentandolo un po’ con la mia proverbiale flemma e con la complicità inseparabile del mio amico felino,

il gatto fantasma,

incontrato nel piccolo camposanto di paese, in Adelfia Canneto.

Lui che di tanto in tanto riaffiora, opera

e scompare…

Nell’ampio pensiero sognante abitano creature magiche di ogni tipologia, ma quando attraverso il bosco con il gatto

Mio

accanto, mi sento al sicuro, so

che la sua aura ci proteggerà ovunque, anche nel chiaroscuro della penombra, lì dove tutto appare possibile e ognuno è ciò che vuole essere, e mai come in questo periodo voglio navigar fantasia per incontrare spiriti, gnomi, fate e amiche streghe.

(Mio, il gatto manifesto di Ezio Crivellin)

IL CIRCO SENZA ANIMALI – filastrocca [età 0-12]

#bambinidazeroadodici #012

🦎

L’EQUILIBRISTA

AVEVA UN CAVALLO

MA IL CAVALLO ERA TRISTE

E ANDÒ FUORI PISTA.

IL DOMATORE

AVEVA UN LEONE

MA IL LEONE ERA STANCO

DI FARE L’ATTORE.

IL PAGLIACCIO

AVEVA UNA SCIMMIA

MA LA SCIMMIA ERA MORTA

DORMENDO ALL’ADDIACCIO.

LA TRAPEZISTA

AVEVA UNA FOCA

MA DI FOCHE DAL FILO

NE ERA CADUTA UNA LISTA.

LA BALLERINA

AVEVA UN CAGNETTO

CHE SAPEVA BALLARE

UNA BELLA MANFRINA

COL GATTO E COL TOPO

SUL CAPO

BALLAVA IERI, BALLAVA OGGI

E IL GIORNO DOPO.

LO SPETTATORE

AVEVA UN BIGLIETTO

UN BIGLIETTO DI SANGUE

FATICA E SUDORE.

OGGI IL CIRCO

HA CHIUSO I BATTENTI

È TORNATO ALL’INFERNO

CON BAGAGLI E ARMAMENTI.

Cari bambini, il circo è bello quando non sfrutta gli animali. Vale anche per i parchi acquatici che utilizzano delfini e orche, quei luoghi in cui i cetacei sono costretti a saltare per farci ridere. Non fanno piuttosto piangere? Lo sapete che la maggior parte di questi amici animali proviene da veri e propri rapimenti – i pescatori allontanano i piccoli dalle famiglie, uccidendo madri e padri – oppure da anni e anni di tramandata cattività. 

Diciamo NO alla prigionia di tigri, leoni, elefanti, scimmiette, foche…

Siete d’accordo?

Se sì, educate i vostri genitori e dite loro di portarvi piuttosto – Covid permettendo – al cinema o a camminare nel bosco per osservare la fauna libera e felice,

Favolesvelte, Golem Edizioni, 2016
Ph. mia/Bussana Vecchia

NOVE VITE – prosa riflessiva e riflessi poetici

Fotografia di Chiara Liverani – Ritatto dell’autrice con le sue Favolesvelte, Golem Edizioni.

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La parola fa capolino dalla mia testa, spunta dai capelli, prende il volo dalle ciglia. Si deposita per un attimo sul seno – tenta di estrapolare un nesso, prova ad estrarre una goccia di senso. Fluido sensibile, stream of consciousness, si blocca, si intimidisce.

La pelle irritata è brivido fugace: l’apparenza corrisponde al non detto? Tra le righe appaiono le rughe? Scrivere a penna nel reticolo che mi fa me, che mi fa quella che sono. Fa freddo, fa caldo: il clima segue il flusso dei pensieri. Squarci di rosso nel verde fosforo, i grigi metallizzati. Chiara punta l’obiettivo sul disegno e ad ogni scatto io rifletto sulle mie rigidità.

Uno, nessuno, centomila pirandelliane Valeria si sono avvicendate nel corso degli anni. Ad ogni gestazione di coscienza seguiva il parto difficoltoso dell’Io. A volte erano aborti di me stessa: avrei voluto evolvere, migliorare, comprendere meglio… ma restavo fissa. Più spesso, giorno dopo giorno ad un modus operandi obsoleto seguiva un’altra gestazione, una donna con qualcosa di “nuovo” fuoriuscita ad ogni giro di luna (l’Una) dalla stessa Grande Vagina della divina creatività. L’alchemica faccenda che ha nome Opus mi riguarda da dentro, più che da vicino.

Quante volte sono rinata dalle ceneri nel mio mondo interiore e quante vite ancora ho a disposizione? Se fossi come il gatto della mia filastrocca, di certo ne avrei ben nove.

NOVE VITE

Una favola dedicata al gatto, che è il miglior amico di se stesso ma anche dell’uomo capace di accoglierne la meravigliosa vitalità.

La prima vita l’ho vissuta da gran guerriero

cacciando topi giorno e notte nell’Eocene;

della seconda ricordo pranzi succulenti e cene

e le carezze di Cleopatra al dio che ero.

La terza vita è stata invece un po’ più dura

scarso il vitto, precario era l’alloggio –

d’altronde una strega mi forniva appoggio

almeno così m’han detto, ma è storia oscura.

Della quarta mi ricordo ancora meno:

manco il tempo d’aprire i verdi occhi

di grattar via due pulci e tre pidocchi

che ero già morto stecchito in un baleno.

La quinta è stata davvero molto bella

nei saloni della corte servito e riverito

il pittore che prendeva le misure con un dito

per cogliere il mio sonno tra le braccia dell’ancella.

La sesta vita l’ho trascorsa marinara

come mascotte di un famosissimo pirata

peccato il cibo, a volte solo una patata

ma poi le feste per gli assalti alla tonnara.

La settima vita non mi ha disturbato

mentre la guerra imperava dappertutto.

Dei giochi umani io mi godevo il frutto

fino al giorno in cui una bomba mi ha beccato.

L’ottava volta cominciavo a esser stanco

guardando il fondo della ciotola pensavo

ai tempi antichi dell’eroe che ricordavo

al coraggioso che nei bar teneva banco.

Ora sono qui con te, ed è la nona

storia di fusa senza darmi poi da fare

disteso al sole guardo dritto oltre il mare

sperando che il tempo me la mandi buona.

 Valeria Bianchi Mian

FIABE E TAROCCHI: WORKSHOP ONLINE IN PARTENZA 21+28/6 e 5/7

Con Cinzia Caputo:

Analista junghiana, didatta del CIPA, istituto meridionale (membro del consiglio dei docenti). Socio della IAAP (International Association for Analythical Psychology). Le sue materie di insegnamento riguardano il mito, la fiaba e le tematiche narrative in generale. Esperta nella formazione in ambito gruppale, ha collaborato con l’azienda ospedaliera Santobono in qualità di formatrice del personale medico; e privatamente presso il suo studio di Napoli. Si è occupata presso la seconda Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli dell’attività di consultazione per studenti SUN.  

Socio Fondatore e presidente di ANTHEIA (Associazione Culturale di Psicologia Analitica e Scienze Umane), con cui ha organizzato a Napoli diversi eventi culturali che coniugano arte e psicologia analitica.  Nel  del 2005 pubblica la sua prima silloge: “Verso” (Manni editore),  nel 2011, “l’Agenda della Dea”, ed. Guardamagna Pavia; Settembre 2011, “Camargue”, testi di Cinzia Caputo, Serigrafie di Oreste Zevola, Ed: IL LABORATORIO/le edizioni.  2012 “l’Agenda della Dea, sognatrici del tempo”, ed. Guardamagna Pavia.

Ha pubblicato un saggio sul mito di Persefone, “La Spiga e Il Melograno”, ed. Valtrend. Nel 2019 ha pubblicato per la IOD edizioni, “Nutrici di Se”, un saggio sul mito della maternità. Nel 2020 ha pubblicato nei Quaderni di Calibano, collana diretta da Mimmo Grasso, “Bambole”, con disegni di Annalisa Mazzola, in collaborazione con Istitutum Pataphysicum Parthenopieum. 

*

E Valeria Bianchi Mian:

Psicologa e psicoterapeuta, psicodrammatista junghiana specializzata presso l’Istituto COIRAG di Torino.

Dal 2000 utilizza i Tarocchi e altri mediatori psichici in laboratori espressivi con lo Psicodramma e la scrittura creativa; il suo metodo si chiama Tarotdamma®.

Docente per Psicologia.io, piattaforma per la quale cura anche un salotto letterario, e per PoesiaPresente Lab. Conduce corsi e laboratori di scrittura terapeutica con Golem Edizioni ed è ideatrice e co-conduttrice del progetto di Poetry Therapy “Medicamenta – lingua di donna e altre scritture”. È socia di ARAGIP Psicodramma e Referente Piemonte SIPSIOL, Società Italiana Psicologia Online, e OSA – Oltre la Sperimentazione Animale. Scrittrice e illustratrice: tra i suoi libri – “Favolesvelte”, “Non è colpa mia”, (Golem), “Vit(amor)te. Poesie per arcani maggiori”, (Miraggi), “Il corpo crudo”, Piemonte in Noir (Capricorno, La Stampa), “Psicoporno, 12 racconti alla ricerca di Eros” (Buendia Books). Tra le antologie e i saggi – “Utero in anima”, (Lythos); “Amori 4.0”, Alpes Italia; e altri.

Ha curato “Maternità marina” (Terra d’ulivi) ed è coautrice in varie antologie poetiche, l’ultima delle quali si intitola “Bestie, femminile animale” (Vita Activa Nuova APS).

Redattrice per Versante ripido, con una rubrica dedicata a Note Psicopoetiche, e Oubliette Magazine, sito di cultura per il quale scrive diTarocchi e simbologia. Scrive anche su Psiconline e siti web culturali. Il suo sito: www.tarotdramma.com

Informazioni e iscrizioni: 3332544620 – tarotdramma@gmail.com

JOHN JOCKER AND THE DEVIL – di Maurizio Michel


JOHN JOCKER AND THE DEVIL 
(un racconto ispirato dai tarocchi e dai pirati)


Scrive Maurizio Michel, autore del racconto:
Una breve premessa credo sia necessaria: questo racconto mi è stato ispirato dalla stesa di Natale che il gruppo dedito al #sociodrammanarativo su #Jodorowskyitalia ha messo insieme grazie al coordinamento di Valeria Bianchi Mian . Ulteriori rimandi “pirateschi” da parte di quest’ultima, han fatto sì che questa storia sia venuta a trovarmi. Chiedo scusa a storici e marinai per le inesattezze. Per la descrizione del Maelström che faccio nel racconto, sono largamente debitore ad Edgar Allan Poe: lo si prenda quale piccolo omaggio a tale grande scrittore che tanto ho amato. Per quel che è di mia fantasia, sono grato.

Nel collage allegato vedete sir Francis Drake, il mago John Dee e le carte del Taròt che mi sono state d’ispirazione.
Buona lettura a chi ne avrà voglia!
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Nei primi mesi dell’anno del Signore 1588, la regina d’Inghilterra Elisabetta I° fu avvertita dall’astrologo di corte John Dee che una grande sventura sarebbe sopravvenuta dal mare entro pochi mesi, di tal ampiezza da minare alle fondamenta il Regno e l’unità del popolo inglese. Spaventata da questa profezia, la Regina chiamò a corte i pirati Sir Drake e Sir Hawkins oltre al gran capo delle armate di terra e di mare, Sir Charles Howard conte di Nottingham, per avvertirli del pericolo profetizzato da John Dee. Durante la concitata riunione l’ammiraglio non si disse sorpreso: del resto, che Re Filippo II° di Spagna avesse in mente qualcosa di losco lo si sapeva già da tempo, visto che Drake soltanto l’anno prima combinò un bello scherzetto alla flotta spagnola di stanza a Cadice, appiccando il fuoco alle navi ancorate alla fonda. Ma quel che mise in allarme tutti fu il fatto che – in aggiunta alle funeste premonizioni del mago John Dee – anche la rete di spionaggio da tempo stava segnalando l’allestimento di una flotta immensa chiamata “invincibile armata”. Alla fine della riunione, incitati dalla Regina, i tre convocati dichiararono di essere pronti ad agire con ogni mezzo per salvare la Corona. Nel prender commiato la sovrana assicurò ai tre convenuti che il mago John Dee li avrebbe aiutati scatenando il maltempo sulla flotta avversaria a tempo debito. Tutti e tre si misero all’opera per organizzare una flotta potente in grado di fronteggiare l’attacco. Mentre sir Howard doveva occuparsi di organizzare la Regia marina e rafforzare le difese costiere, Sir Hawkins e Sir Drake, in quanto pirati graditi alla corona, avevano campo libero di agire come a loro riusciva meglio, ossia in veste di “guastatori”. Drake in particolare decise immediatamente di mandare in avanscoperta un paio di vascelli ben attrezzati al fine di verificare la reale potenza di questa “invincibile” flotta spagnola. La scelta cadde sui vascelli “Wrathchild e “Flight of Icarus” comandati dall’iracondo corsaro William Black detto comandante Diavolo, da lungo tempo compagno di mare, d’arme e scorrerie del pirata Drake. Costui al momento si trovava con le navi alla fonda a Portsmouth, e ogni benedetto giorno si muoveva con una scialuppa verso il molo per poi perdersi tra le stradine della città in cerca di locande, di birra, di scazzottate e di donne di malaffare… ma, non appena fu rintracciato dal messo di Drake e informato del pericolo incombente, lasciò perdere la “bella vita” e si mise subito in azione: non fosse mai che quel mascalzone di Drake ne avesse a male! Bisognava rifornire i due vascelli di munizioni e viveri e trovare nuovo personale di bordo – visto che i marinai al soldo di comandante Diavolo si ammutinavano spesso e pure volentieri; il comandante dettò dunque un bando di arruolamento da declamare nelle piazze di Portsmouth per reclutare marinai e inservienti.
In quel tempo, nella città portuale si trovava un giullare di nome John Jocker, che intratteneva la gente con uno spettacolino fatto di musiche suonate con il piffero nel mentre che danzava, e di quartine declamate all’istante usando i nomi degli spettatori. Durante uno di questi spettacoli John fu interrotto dal suono di un tamburo che precedette l’annuncio a voce alta dell’arruolamento in corso. La notte seguente John non riuscì a dormire: si rigirava continuamente nel giaciglio mentre pensava e ripensava a quanto si trovasse in magra da molto tempo, dacché i suoi spettacoli attiravano sempre più pomodori e uova marce e sempre meno soldi. La pancia brontolava ormai da giorni, e il mare – che gli era sconosciuto – in fondo non gli pareva affatto male: lo vedeva come una nuova possibile esperienza. Non pensò al fatto che quel bando si riferiva ad una pericolosa missione militare, in quanto la sua attenzione fu attratta unicamente dalla parte dove si diceva che c’era bisogno di inservienti e che questi avrebbero avuto paga e lauti pasti… e forse allora era il caso di provare! Con questo spirito la mattina seguente si presentò al porto e ben presto si trovò al cospetto di comandante Diavolo. Quest’ultimo aveva un aspetto impressionante: teneva baffi lunghi e arrotolati, una barba imponente e biforcuta piena di pulci, sopracciglia folte come la foresta di Nottingham, capelli lunghissimi e brizzolati, un occhio bendato, l’altro con la pupilla nera come la pece, la bocca un po’ sdentata, una cicatrice profonda sulla guancia sinistra, e, sempre a sinistra, un uncino arrugginito al posto della mano. Era un …uomo? …alto e grosso che puzzava come un intero gregge di capre e aveva sulla divisa rattoppi a forma di teschio cuciti dappertutto; e nonostante l’aspetto orripilante, il bruto pirata si sforzava malamente di mantenere un contegno bonario per convincere questo matto che chiedeva informazioni. Gli disse: “Mio caro… come ti chiami? Jocker, ah yes, Jocker… ecco, dovrai fare soltanto il mio attendente e non sarai solo. Cosa significa? Dovrai curare la mia persona e fare quello che ti comando. I pasti? Oh certo, si, i pasti… si, avrai due pasti al giorno, su questo stai tranquillo”. Si accordarono poi sulla paga che, disse il comandante, veniva corrisposta solo a missione compiuta, e si dettero appuntamento al molo alla mezzanotte della prossima luna piena, tra quindici giorni. Non era un buon momento per salpare, di solito si attendevano i primi del mese di Maggio, ma qui c’era in gioco ben più di oro gemme e spezie, qui se arrivavano gli spagnoli si sarebbe creata una egemonia marinaresca che avrebbe messo fine a tutto quanto: colonie, regno… e cose da rubare!
Nella notte stabilita, al chiarore della luna piena, una ciurmaglia di gente di varia provenienza si accalcò sul molo per prender posto nei due vascelli: c’erano turchi, arabi, inglesi ovviamente, e anche italiani e olandesi. John Jocker prese posto sul vascello più importante, il “Flight of Icarus”, che a prua montava una polena a forma di demonio alato con i denti aguzzi, la lingua in fuori e lo sguardo con gli occhi incrociati; Jocker però venne condotto a poppa, nella parte più rialzata della nave, subito dietro il timone e il ponte di comando. Lì vi era una specie di seggio che assomigliava ad un trono, e dietro ad esso una cabina in legno con due finestre a oblò e una porticina. In quel cabinotto riposava il comandante Diavolo. Si trovò faccia a faccia con un altro inserviente, poi arrivò il secondo di vascello a dir loro di riposarsi pure sugli assi di legno del pavimento mentre manovrava per uscire dal porto. Quei due trascorsero così una notte insonne. Al primo albeggiare il comandante Diavolo uscì dalla cabina e in men che non si dica ordinò di incatenare a un ceppo i due inservienti. Che spavento per John Jocker, ora vide davvero chi era comandante Diavolo: altro che bonario, era una furia! Aveva una voce potentissima e urlava i comandi e sbraitava, e non aveva rispetto per nessuno. A loro due si rivolse con uno sguardo fiammeggiante, nel mentre che faceva uno sberleffo: “Vi ho incatenati per non perdervi mai di vista, ma le catene sono abbastanza lunghe per permettervi di fare quello che vi comanderò”. Poi con un cenno chiamò una donna anziana, l’unica donna a bordo: “Suor Temperanza! Vecchia baldracca! Vieni qua che mi devi sistemare le piaghe!”. Suor Temperanza aveva avuto una vita particolare: per volere dei genitori fu rinchiusa giovanissima in monastero ai tempi del regno di Maria Tudor al fine di pregare per la preservazione della fede cattolica nel paese, ma non fece nemmeno in tempo a prendere i voti definitivi quando un marinaio turco si presentò alla porta (quel giorno faceva lei da guardiana alla rota) e guardandola con due occhi azzurri come il mare, la stregò. Lei lasciò cadere il velo a terra, non disse nulla alle sorelle, e scappò via con questo Moro. Ben presto però tanta passione si trasformò in commercio, e si ritrovò così invischiata in un giro di malaffare. Il comandante Diavolo era, fin da giovane, un cliente abituale del Moro, e anni e anni dopo, quando ormai suor Temperanza non poteva più fare il mestiere più antico del mondo, la riscattò per trarla con sé a far da “infermiera” a bordo nave. Comandante Diavolo teneva molto affinché non fosse toccata da nessuno, e su questo era così fermo e intransigente che non poche volte aveva gettato di persona in mare aperto qualche marinaio che ci aveva provato. Serbava una sorta di rispetto per quella donna che sapeva come armeggiare con ago e filo e con i medicamenti, così bene come da giovane ragazza aveva saputo armeggiare con… Beh, ecco, infondo erano cresciuti insieme, ed ora era la “donna di casa” su quel vascello! Dopo che Suor Temperanza ebbe curato le piaghe provocate dal fuoco di sant’Antonio di cui soffriva il Comandante Diavolo, questi uscì dalla cabina e comandò per tutto il giorno a bacchetta ai due inservienti: fammi vento, portami il vino, toglimi le pulci, pulisci per terra, e tutto questo (e molto altro) restando sempre incatenati ad un ceppo posto alla base del “trono” su cui sedeva il comandante. A volte Diavolo si ergeva dritto sul trono e urlava qualcosa del tipo: “molla la scotta!” e altri comandi che Jocker non capiva. Che situazione! E i pasti? Beh riguardo ai pasti…. Si, due volte al giorno veniva servita una razione piuttosto misera di una sbobba fatta con patate, rape, e pane raffermo. Acqua potabile ne davano poca, e se ne chiedevi in aggiunta, tiravano su un secchio d’acqua di mare e te la sbattevano in faccia. In che situazione si era messo, povero Jocker: incatenato a un Diavolo fatto persona, in mezzo al mare, senza un perché! Rimpianse amaramente quei tempi in cui quel suo esser mezzo artista e mezzo girovago lo facevano sentire libero… ma guarda dove si era andato a cacciare!
Dopo tre giorni di navigazione si trovarono nel bel mezzo della Manica, al largo dell’isola di Guernsey. E lì videro, alla distanza di cinque o sei leghe, le navi spagnole! Erano tante, ma tante, e si rifornivano sull’isola probabilmente per proseguire verso la Penwith Coast, per doppiarla e risalire in direzione Bristol o ancor più su al fine di tentare lo sbarco. A comandante Diavolo questo bastò, e non c’era tempo da perdere: mandò via un piccione viaggiatore, che sapeva dove andare per avvertire del pericolo già in atto. Il piccione però ebbe un comportamento strano, ritornava indietro… e ci mise un po’ a spiccare il volo definitivo. Comandante Diavolo capì, stava per cambiare il tempo, e pure in maniera repentina. Scese la sera e di lì a poco i due vascelli si ritrovarono in balìa di una tempesta, con onde alte, pioggia e vento. A un certo punto una forte corrente fece fare un balzo in avanti al “Flight of Icarus”, il quale si ritrovò trascinato in senso circolare: non c’era tempo da perdere! Il comandante fece ammainare le vele e urlò a squarciagola di spostare le cannoniere e infilare nelle bocchette tutti i remi a disposizione, ma non ci fu verso di contrastare la potenza del mare. I remi si spezzarono ad uno ad uno, ogni umano sforzo fu vano, e il vascello di comandante Diavolo si trovò attirato in un gigantesco Maelstrom, un vortice di dimensioni inimmaginabili. In tutto il canale della Manica una cosa così non si era mai vista! Doveva essere quel mago John Dee che faceva le prove, ecco cosa pensò comandante Diavolo, perché un gorgo così gigantesco non lo aveva mai visto in vita sua, e se ne sapeva qualcosa, era solo per certi racconti fiabeschi di marinai norvegesi incontrati nelle bettole dei porti più a nord. Vide che l’altro vascello, il “Wrathchild”, era in difficoltà ma comunque era riuscito a tenersi fuori dalla portata del risucchio. A quel punto chiamò la ciurma e gridò il “si salvi chi può” perché ormai tutto era perduto. Jocker e l’altro compagno piangevano, incatenati e impauriti. Comandante Diavolo se ne accorse e andò di persona a preparare due diversi salvagenti. Uno lo costruì staccando, col suo uncino, assi di legno dai parapetti della nave. Legò gli assi insieme con più forza che poté, in modo che costituissero un ammasso di legno ben solido. Un altro salvagente lo realizzò svuotando un barile che conteneva polvere da sparo: assicuratosi che fosse vuoto, lo tappò per bene con una sughera, e poi guarnì il tappo e le cerchie ferrate del barile con fili di rafia, borchie di ferro, e tanta pece. Poi con un’ascia spezzò le catene ai due inservienti e disse loro: “Razza di smidollati, scegliete il vostro salvagente!” Jocker non fece in tempo a fare un passo che già l’altro si era fiondato sul fasciame di assi. A Jocker non rimase che il barile. Comandante Diavolo li legò stretti ai loro salvagente, e prima di buttarli a mare disse loro: “solo uno di voi ha qualche probabilità di salvarsi, quello che è legato al salvagente giusto. Ora io vi getto a mare, ricordatevi solo di fare un gran bell’ultimo respiro quando vedete che andate sotto. Il resto lo saprete lì per lì. Se colui che ha con sé il salvagente giusto ha anche fortuna, ci rivedremo.” Detto questo, diede loro un calcio nel sedere così potente da farli letteralmente volare incontro al mare in tempesta. L’ultima cosa che Jocker udii in quella notte terribile furono le risate di comandante Diavolo, che divennero man mano più tenui nel mentre che il vascello iniziò a girare intorno al vortice fino ad esserne inghiottito. Poi toccò anche a lui e al suo compagno! Gli arrivò addosso come una forza immensa a risucchiarlo verso il basso e a farlo girare in tondo ad una velocità spaventosa. Jocker guardò in basso e vide il vascello, o quel che ne rimaneva, inabissarsi vorticando. Vide anche il compagno inabissarsi a quel modo, mentre lui stranamente girava in cerchio spinto dalla corrente vorticosa, ma non scendeva verso il fondale. Poi, trascorsi dei minuti che gli sembrarono non finire mai, ormai stremato, si sentì sospingere in alto: con le ultime forze fece appena in tempo a riempirsi i polmoni al massimo delle sue possibilità e subito venne inondato da una corrente di risalita così forte che il povero Jocker balzò fuori dal pelo d’acqua facendo un guizzo di qualche metro. Nel frattempo il gorgo si richiuse e il mare da agitato, pian piano si fece calmo. Era vivo. La botte era il salvagente giusto, e non la aveva nemmeno scelta lui. John Jocker a quel punto, legato al suo barile, svenne in mezzo al mare. Sul far del mattino l’altro vascello, il “Wrathchild”, si avvicinò per tirarlo a bordo. Aveva salva la vita! E, sorpresa, a bordo ritrovò comandante Diavolo e Suor Temperanza. Ma come Diavolo!?… Il comandante notò l’espressione stupita di John Jocker, e scoppiò in una gran risata. Poi chiese a Suor Temperanza di accudire il ragazzo. Comandante Diavolo, mentre dava ordini per tornare a Portsmouth, pensò che in fondo quel ragazzo, quel John Jocker, era stato baciato dalla Dea fortuna e in cuor suo, forse a causa dei ricordi che gli riaffioravano alla mente di quando era giovane marinaio – più e più volte salvato dalle onde – decise che avrebbe fatto di Jocker un buon capitano di vascello.
Suor Temperanza intanto si occupava di Jocker curandogli le escoriazioni e le ferite, scaldandolo tramite una stufa a carbone e preparandogli un pasto caldo con un buon brodo di carne (finalmente carne!) lessata accompagnato da legumi e frutta secca! Jocker finalmente sazio si addormentò, e la mattina seguente, ritemprato, fu ricevuto in cabina da comandante Diavolo. Da quel giorno, per i due anni seguenti, il comandante spiegò tutti i segreti del vascello e del mare al marinaio John Jocker. Nel frattempo, Sir Francis Drake e compagni d’arme e di mare, tra il Maggio e il Settembre del 1588, respinsero (con l’aiuto del maltempo che si volle credere fosse stato invocato dal mago John Dee) la “invincibile armata” di Re Filippo, facendo tirare un bel sospiro di sollievo alla Regina Elisabetta. Finita questa guerra, Jocker e Diavolo fecero scorribande al servizio di Drake finché il comandante, un giorno, si sentì molto male. Chiamò Suor Temperanza, ma non ci fu niente da fare. Con un residuo barlume di coscienza Diavolo chiese un ultimo brindisi con il Rum, quello buono messo da parte in cambusa, e fu così che dentro alla cabina si levarono tre coppe, per Temperanza, per John Jocker e per il pirata William Black, detto comandante Diavolo: brindarono al mare, alla vita, alla piratesca amicizia! Poi il comandante chiese di essere legato ad un asse, e, quando fosse spirato, di esser gettato in mare. Per le preghiere, bastava già quel che aveva recitato Suor Temperanza in tutti questi anni.
Jocker si ritrovò così proprietario e comandante del “Wrathchild”, ma lui proprio non riusciva a vedersi pirata. Appena rientrò in porto fece smontare la polena del “vascello (che era demoniaca tanto quanto quella del “Flight of Icarus”) e ne fece scolpire un’altra con quelle che lui immaginò essere le fattezze di suor Temperanza da giovane: una bella ragazza, angelica d’aspetto, coi capelli lunghi biondi e due occhi verdi da illuminare il mondo. Poi, cambiò il nome alla nave chiamandola “Sister Temperance”, vendette le cannoniere, e si diede al trasporto di spezie e oro tra le colonie ed il Regno, fino al giorno in cui Suor Temperanza morì. In quei giorni di lutto per quella donna guaritrice e buona come un angelo, John si rese conto di essere stanco di quella vita di mare. Poco tempo dopo vendette la nave per tornare a far di nuovo spettacoli di strada, insieme a una donna che divenne sua stabile compagna, tal suor Prudenza… si, proprio un’altra suora fuggita da un convento, questa volta per amor di Jocker.

Di questa storia nessuno oggi ricorda nulla, senonché a Portsmouth, in Temperance Street al civico numero 14, c’è un pub che reca l’insegna “John Jocker and the Devil”: se entrate dentro al locale, affissi ad un muro trovate un timone, un uncino, un piffero medievale e le carte del Taròt raffiguranti il matto, la temperanza e il diavolo. Lo so, direte voi: cosa ci fanno le stampe del Taròt marsigliese in un Pub di Portsmouth? Eppure fu proprio in quel pub, intorno ai primi del ‘900, che Arthur Edward Waite e Aleister Crowley, fermatisi di passaggio per bere birra, si dissero: “E che diamine, noi siamo inglesi, bisogna mettersi d’impegno e farle ridisegnare a modo nostro!”

Maurizio Michel
è appassionato di Tarocchi, simboli e narrazioni

FAVOLESVELTE

è un progetto di Valeria Bianchi Mian

favolesvelte@gmail.com

LA BATTAGLIA DEI DRAGHI – di Annalisa Tacoli

“La battaglia dei draghi” è una nell’ambito favola che Annalisa Tacoli, la nostra ospite di oggi, racconta spesso e volentieri ai propri nipoti riscuotendo ogni volta un grande successo.

Grazie Annalisa!

Drago dal Libro delle Ore
Che bello il drago!

La battaglia dei draghi

Nel paese dei draghi, molto lontano da qui, viveva una colonia di draghi, di varia forma e di vario colore. Uno era verde e aveva tre teste, uno era marrone e aveva due teste; gli altri gialli, rossi o argentati avevano solo una testa ma sputavano fuoco ed erano cattivissimi.
Fra tanti draghi, l’uno più feroce dell’altro, soltanto uno aveva un buon carattere e non si arrabbiava mai, tanto che invece di sputare fuoco, come fanno tutti i draghi normali, gettava fuori dalla bocca una nube color argento.
Inutile dire che i draghi cattivi facevano gruppo fra di loro, organizzavano scorrerie e altre malefatte e del drago tranquillo non si curavano nemmeno. Come se non esistesse.
Il drago “bravo” però non se ne preoccupava, faceva la sua vita pacifica, girava per il paese senza dare fastidio a nessuno, spilluzzicava erbe e frutti in campagna, dato che era erbivoro e, quando capitava, sapeva anche rendersi utile per qualche lavoretto o per qualche impresa più difficile.

La gente del paese lo trovava simpatico e gentile e quando lo incontrava non scappava più come di fronte agli altri draghi, anzi tutti lo salutavano e spesso lo invitavano nelle loro case a mangiare una fetta di torta o a bere un bicchiere di vino.
Ormai lo conoscevano e per distinguerlo dai draghi cattivi lo chiamavano affettuosamente per nome. Si chiamava Orlando.
Orlando qui! Orlando là! Era amico di tutto il villaggio e tutti gli volevano bene.
Il tempo passava, cambiavano le stagioni e la vita procedeva tranquillamente ma un giorno, quando nessuno se lo aspettasse, successe il patatrac. Scoppiò la guerra dei draghi.


I draghi feroci che da qualche tempo stranamente vivevano in pace, d’improvviso, avevano trovato una buona ragione per litigare.
Il drago a tre teste, che avendo tre teste aveva sei occhi e ci vedeva molto bene, un giorno che si aggirava per la foresta aveva notato, fra le foglie cadute, qualcosa di strano, mai visto, almeno dai draghi, era una pietra che rifletteva i raggi del sole e brillava in maniera straordinaria.
Il drago subito se ne invaghì, la raccolse e decise di tenersela per sé. Anzi decise di non dirlo a nessuno perché nessuno potesse rubargliela. Così ritornò nella sua grotta e la nascose con molta cura sotto una lastra di pietra.
Ma qualcuno aveva notato i suoi movimenti, li aveva trovati sospetti e aveva pensato bene di indagare. I draghi, si sa, sono curiosi e maligni, così il drago rosso che aveva una testa sola ma un cervello da detective cominciò subito le sue indagini, studiò le tracce, confrontò le prove e ben presto scoprì la refurtiva, ben nascosta nella grotta del collega.
Anche lui, colpito dalla bellezza della pietra, già stava pensando di rubarla quando venne sorpreso dal padrone di casa.
E cominciarono ad accapigliarsi.
La guerra fu dichiarata seduta stante, draghi verdi contro draghi rossi .

I draghi verdi avevano più teste, artigli ricurvi e corpi coperti da scaglie durissime ma il loro cervello, suddiviso un po’ qua e un po’ là, non era molto brillante.
I draghi rossi avevano una testa sola, una coda biforcuta e zampe agili e forti. Senza contare che tutti avevano ali possenti.
Fra i due gruppi antagonisti è difficile dire quale fosse più forte.
Certo che fra graffi degli uni e colpi di coda degli altri, fra testate degli uni e zampate degli altri, la lotta era sanguinosa e senza pietà.
Dopo giorni e giorni di battaglie, ancora non si sapeva chi fosse il vincitore, i draghi, da una parte e dall’altra, erano acciaccati, feriti, azzoppati, le ali mezzo sfrangiate ma continuavano a combattere.
L’intero paese era devastato, ogni volta che i draghi si insultavano fra di loro, lingue di fuoco bruciavano la campagna, incendiavano gli alberi. Gli abitanti del paese erano terrorizzati, non potevano più uscire di casa, saette di fuoco sprizzavano ovunque e ad ogni momento del giorno e della notte.
Disperati, non sapendo più che fare, chiesero aiuto a Orlando.
Lui si era tenuto fuori dalla mischia e, per non avere niente a che vedere con gli altri draghi, si era persino trasferito. Era andato ad abitare in una capanna che si era costruito sulla riva del mare.
Là se ne stava tranquillo e felice, nuotando, pescando e prendendo il sole quando c’era.
Quando gli abitanti del villaggio andarono a cercarlo, lo trovarono occupato a cercare conchiglie sulla spiaggia. Ne aveva trovate di bellissime e siccome era generoso e di animo gentile, subito aveva pensato di regalarle agli amici. Ma quali amici? Gli altri draghi non lo guardavano nemmeno…
Gli abitanti del villaggio gli spiegarono il problema, gli raccontarono tutta la vicenda e chiesero il suo aiuto. Lui che non sapeva dire di no, accettò subito di aiutarli. Ma come?
Si ricordò allora delle conchiglie. Le mise in un sacchetto e le portò con sé, per ogni evenienza. Chissà se quei draghi, che da giorni stavano litigando per una sola pietra brillante, non si sarebbero calmati di fronte a quelle belle conchiglie lucenti! E lì ce n’era per tutti.
Ma bisognava incuriosirli… bisognava trovare uno stratagemma per interessarli. A volte erano così sciocchi e infantili!
Lui non sputava fuoco, come abbiamo visto, ma, se voleva, poteva lanciare dalla bocca uno spruzzo argentato. E così fece.
Le conchiglie che già erano belle e lucenti, quasi per magia, si tinsero d’argento e cominciarono a splendere come gioielli.
A quella luce abbagliante i draghi, curiosi com’erano, smisero subito di lottare fra di loro e corsero a vedere di che cosa si trattava.
“La voglio io, no… è mia, no… sono arrivato prima io, no.. l’ho vista io per primo…” e già stavano ricominciando a litigare e ad azzuffarsi.
“Ce n’ è per tutti, disse Orlando, su, mettetevi in fila, ve ne darò una ciascuno, così la smetterete una buona volta di fare i capricci…”
I draghi, con le orecchie basse e la coda fra le gambe, si misero in fila, per una volta… buoni buoni. Anche se già qualcuno di loro stava senz’altro pensando a qualche malefatta.
Intanto però almeno gli alberi e i prati erano salvi. Per un po’ niente più lingue di fuoco, fulmini e saette su quel paese lontano.
La battaglia dei draghi era finita… almeno per questa volta !

Alla prossima!